L'altra faccia della spirale (dell'interconnessione fra esseri umani)

«La Seconda Fondazione si trova su "Star's End", all'altro capo della Galassia...»

Prendo a prestito il titolo di un ottimo libro di Isaac Asimov – «L'altra faccia della spirale», o Seconda Fondazione – per una piccola riflessione.

Siamo ormai abituati a essere tutti interconnessi: abbiamo cominciato con il telefono, siamo passati alle email, poi i sistemi di messaggistica, per finire – trionfalmente – con i social network.

Dico trionfalmente, parlando dei social network, semplicemente perché oggi sembra non se ne possa fare a meno: praticamente ogni individuo si connette almeno a uno di essi e, nel migliore dei casi, passa almeno un'ora al giorno a navigarlo e a interconnettersi con altri individui.

La prima riflessione è semplice: per quale motivo ci interconnettiamo sui social network?

La maggior parte delle persone con cui parlo adduce più o meno le stesse motivazioni: per sapere cosa succede nel mondo, per parlare con gli amici, per conoscere nuove persone, per trovare occasioni di lavoro, per gestire le proprie relazioni - private o, nuovamente, di lavoro -, per promuovere iniziative o eventi…

La realtà, francamente, è che a me sembra che queste interconnessioni - che spesso occupano porzioni molto significative della giornata di moltissimi individui – altro non siano che entropia, ovvero disordine e dispersione di energie - soprattutto mentali - e di tempo - quell'unico bene che nessuno può renderci - che hanno come risultato prevalente una generale disconnessione dalla realtà, un globale annichilimento degli individui che, così occupati a leggere e guardare tutto ciò che passa loro sotto gli occhi, non si rendono conto in realtà di essere bombardati senza pietà e distrutti nella volontà di vivere la propria vita reale.

Non voglio fare il bacchettone, tantomeno voglio additare questi sistemi di interconnessione come se fossero il male del nostro tempo: come quasi tutte le nostre invenzioni, il male non è nell'idea in sé, ma, ovviamente, nell'uso che se ne fa. E l'uso che si fa oggi di questo stupefacente strumento in grado potenzialmente di fare dialogare tutti gli esseri umani, francamente parlando, mi sembra, come minimo, praticamente inutile. Facciamo salvi tutti i casi in cui i social network rivestono una qualche utilità, pratica o meno, per non passare per fondamentalisti.

La seconda domanda è: in mezzo ai miliardi di comunicazioni che passano ogni giorno, quante di queste comunicazioni utili o importanti riescono ad arrivare ai destinatari? Soprattutto: a quanti destinatari?

Senza perderci troppo in chiacchiere – altrimenti non è più una piccola riflessione – è più che evidente che l'utilità dei social network è ridicola, rispetto alla potenzialità di interconnettere miliardi di individui.

Ed eccoci all'altra faccia della spirale e alla piccola riflessione: avere a disposizione la tecnologia per collegarci tutti, tutti noi esseri umani, avere gli strumenti per dialogare in ogni angolo della Terra serve davvero - come scopo primario - a farci bombardare da ogni tipo di notizia, senza filtro, senza criterio?

Oppure, ragionando solo sull'interconnessione fra esseri umani e non sui social network, non esiste un'altra faccia della spirale, un approccio differente che possa interconnetterci, per esempio, solo per conoscere ciò che ci interessa?

Pensate che stupore ricevere una notifica sul nostro smartphone e leggere, per esempio, che un utente che ha il nostro stesso identico contratto di fornitura elettrica si è accorto che c'è un errore di 20 euro nella sua bolletta e, verificando, ci accorgiamo che anche noi lo abbiamo: ce ne saremmo accorti, senza quella notifica? E… se quella notifica arriva a tutti e solo tutti gli utenti con quello stesso contratto, pensate un po': improvvisamente saremmo tutti informati.

Non è da disdegnare, direi, riflettere sull'altra faccia della spirale.


Schema rapido struttura ppay

O.O.D. - Design della Comunicazione Orientato agli Oggetti (p. I)

Immaginiamo quanto design di comunicazione venga rilasciato quotidianamente sul web, sui media tradizionali, affisso sui muri della nostra città, nascosto fra le pieghe di una miriade di volantini che vi vengono propinati senza requie. Tutto questo significa caricare i nostri sensi con una quantità di immagini e di comunicazione in grado di abbattere un titano: tra pagine web e bombardamento da parte dei social, per esempio, l'impatto delle immagini assume le dimensioni di vero e proprio inquinamento nei confronti del nostro cervello. Non siamo infatti in grado, di fronte a questa miriade di input, di filtrare realmente tutto quello che ci passa sotto gli occhi.

 

Quanta di questa comunicazione è davvero in grado di lasciare un segno, nel nostro immaginario?

E soprattutto: quella che ci riesce… per quale motivo è in grado di lasciare il segno?

Quest'ultima è una domanda interessante, ed è il motivo per cui è stato scritto questo post.

Esistono diversi motivi per cui una comunicazione riesce a lasciare il segno:

  • In alcuni casi scoprirete che ha lasciato il segno perché il vostro target cercava esattamente quel tipo di prodotto: in una parola, ha focalizzato la sua attenzione su un media o su un messaggio che conteneva le informazioni di cui aveva effettivamente bisogno. Pensiamo, per esempio, a un evento di cui non possa o non voglia fare a meno - un concerto, un evento sportivo, …
  • In altri casi perché sarà qualcosa di originale, inatteso ad aver catturato l'attenzione del vostro target: una immagine decisamente fuori dall'ordinario, qualcosa in grado di spiazzare la normale narcosi in cui vivono le persone durante una normale giornata di lavoro, per esempio.
  • In altri casi, saranno delle costanti comunicative ad avere avuto successo. Un esempio banale su tutti: le classiche forme femminili o maschili in "offerta speciale".
  • Il caso che si augura ogni buon designer, invece, è solo uno (o meglio, i primi due possono essere inclusi in questo): il design della comunicazione è fatto veramente bene.

Così bene che:

  1. Avete attirato l'attenzione dell'utente finale
  2. Avete fornito informazioni che fino a un momento prima l'utente non sapeva gli sarebbero state vitali
  3. Avete convinto il vostro target che, gli serva o meno, il messaggio che avete comunicato gli è piaciuto e conserverà una ottima impressione di chi lo ha commissionato.

 

Questo caso, alla fine, riassume tutte le caratteristiche di un buon design di comunicazione: l'impianto colpisce l'utente (venustas, bellezza); consegna all'utente le informazioni che il committente doveva fornirgli (utilitas, utilità); rinforza positivamente l'impressione che l'utente si è formato sul committente (firmitas, durabilità nel tempo).

 

Design e architettura

I tre termini citati tra parentesi sono le tre chiavi dell'architettura (utilità o funzione, bellezza, durabilità) e, come vedete, si adattano in maniera molto efficace anche al lavoro di un designer di comunicazione. Questo perché comunicare, verbalmente o visivamente, è esattamente come progettare un edificio: la "storia" che raccontiamo deve stare in piedi in maniera solida, gli aspetti che per noi sono più importanti devono essere messi in risalto in maniera esteticamente efficace, il contenuto della nostra comunicazione deve sedimentare positivamente nella memoria del nostro interlocutore. In sintesi, come per un edificio, il destinatario della nostra comunicazione deve essere in grado di abitare in maniera semplice, efficace e gradevole la nostra comunicazione.

Il design – ove per questo termine si intende concept, progettazione e realizzazione – della comunicazione è dunque un vero e proprio edificio comunicativo dentro il quale facciamo entrare pensieri e desideri dei nostri interlocutori, li accogliamo e li trasferiamo temporaneamente ad abitare dentro questo oggetto – la comunicazione – che esiste solo nei loro pensieri.

 

Design "sbagliato": perché?

Questa analogia porta con sé una considerazione che mi appare urgente manifestare a tutti coloro i quali si dedicano a questo mestiere, che io personalmente considero un privilegio: nel panorama odierno, la maggior parte della comunicazione sul mercato è inguardabile. Non solo perché oggettivamente brutta, no; non solo perché scontata o banale, no: è inguardabile perché è, oggettivamente, fatta veramente male. È pensata male, è progettata male, è disegnata male, è realizzata male. La prima scusante che si adduce e che voglio smentire è il budget, spesso irrisorio, che a volte viene stanziato. Falso. I bravi designer non disegnano bene per i clienti importanti e male per quelli meno importanti: i grandi designer disegnano molto per i clienti importanti e meno, ma con la stessa qualità, per i clienti meno importanti. È solo il tempo che hanno a disposizione a fare la differenza. Non sono in grado di disegnare o progettare "male", si limitano a semplificare il progetto, a fare scelte più pratiche a livello di possibilità temporali, mantenendo l'efficacia e la bellezza intatti.

Ma quali sono i motivi, i veri motivi di una cattiva progettazione e realizzazione di design della comunicazione?

In generale, come diceva un genio, il motivo risiede in questa considerazione:

Non esistono risposte sbagliate, ma solo domande mal poste.

Di norma, chi progetta e realizza design per la comunicazione, spesso si accontenta delle prime idee – e dunque delle prime risposte – che sembrano buone e propone qualcosa che solo apparentemente è presentabile. L'apparenza, in questi casi, inganna moltissimo, perché cela e nega, spesso, uno degli aspetti importanti del "triangolo" che vi abbiamo presentato per l'architettura: la funzionalità, l'utilità. Dietro molta della comunicazione di oggi, infatti, il messaggio da veicolare è praticamente nullo, inutile o, peggio, mal veicolato.

E questo ci porta a una prima considerazione: fare del buon design significa prima di tutto fare arrivare il messaggio giusto, la comunicazione, è necessario trasferire agli utenti finali i valori e le idee di chi sta commissionando il messaggio. Dunque, innanzitutto, possiamo assumere che un buon design non è solo una questione di tecnica o di immagine ma, anche e soprattutto, della capacità di veicolare il messaggio che racchiude e rappresenta.

Questo significa che, per far un buon design, è fondamentale porsi le domande giuste, senza accontentarsi solo di quelle superficiali che sono, troppo spesso, domande sbagliate – e dunque mal poste.

 

Il Design della Comunicazione… Orientato agli Oggetti

Detto questo, esiste un altro motivo per il quale molta della comunicazione di oggi non funziona: manca un approccio fondamentale per realizzare un design efficace. Un approccio che, oltre a dare il titolo a questo post, è anche il titolo di un libro che sto scrivendo – «O.O.D.: Object Oriented Design - Design (della Comunicazione) Orientato agli Oggetti» – e di cui questo post è un primo assaggio, il cosiddetto «proof of concept», un po' come il tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante lo fu per la fabbrica di San Pietro, con le dovutissime proporzioni, chiaramente :-)

Il nome muove le mosse da un paradigma della programmazione software moderna: OOP, ovvero Object Oriented Programming - Programmazione Orientata agli Oggetti.

In parole non tecniche, l'assunto di questo paradigma è semplice: poiché quasi tutti i programmi software eseguono molte operazioni simili, invece di reinventare ogni volta lunghissimi programmi che fanno spesso le stesse cose di altri ma con alcune piccole variazioni, perché non creare degli oggetti che svolgano dei compiti specifici - autenticare un utente, effettuare una ricerca… - e scrivere programmi utilizzando questi oggetti senza doverli riscrivere ogni volta concentrandosi sull'architettura del programma, così sapendo quale oggetto eventualmente vada corretto o aggiornato senza dovere influire sul funzionamento degli altri oggetti?

Per realizzare dei buoni programmi software, secondo la teoria OOP, la pratica corretta è quella di creare, per capirci, tanti piccoli oggetti che svolgano, ognuno, una funzione precisa: l'unione di tutti questi oggetti in un unico corpo – il programma finale – darà vita a una applicazione in grado di soddisfare il compito per il quale è stata creata.

Ecco il punto che voglio sostenere: la stessa cosa vale per il design. Affrontare una comunicazione significa, in realtà, suddividere il messaggio, la comunicazione, le immagini, i testi, la grafica in unità concettuali - e soprattutto funzionali - in grado di formare, una volta convogliate nel corpo del design finale, un impianto coerente, gradevole, funzionale e duraturo nell'immaginario degli utenti. Significa suddividere la comunicazione in oggetti logici da utilizzare coerentemente nella progettazione della comunicazione.

 

Cosa significa, in pratica?

Significa che un design corretto deve ragionare sul corpo della comunicazione in maniera simile alla programmazione OOP, deve comprendere la funzione di ogni oggetto che ne fa parte, sia esso una immagine, un testo, un logo o un segno grafico e trasformare l'impianto finale in una entità unica - come per esempio il corpo umano - in grado di essere letta, fruita, compresa dagli utenti in maniera efficace, funzionale, gradevole e duratura. Significa realizzare qualcosa che fornisca tutte le informazioni necessarie con una gerarchia di importanza degli oggetti (ergo, delle informazioni) razionale, in base all'importanza di ogni singola parte, graduando quindi ogni elemento in base alla sua valenza rispetto al quadro di insieme.

Molta comunicazione di oggi, invece, viene realizzata come una sorta di brutto pastiche nel quale gli utenti non sono in grado, a meno di non soffermarsi attentamente a osservare la comunicazione, di recepire i messaggi contenuti in base alla loro effettiva scala gerarchica di importanza.

Ma questo, visto il bombardamento di immagini di cui abbiamo parlato all'inizio, è qualcosa di imperdonabile, soprattutto per i committenti:

un messaggio confuso o inefficace equivale non a un messaggio inutile ma, sempre più spesso, a un messaggio dannoso in grado di creare più guasti di quanto non si immagini.

Teniamo presente sempre che il design di una comunicazione ha la necessità di arrivare agli utenti in maniera rapidissima, ha un tempo di fruizione talmente minimo che deve essere molto più perfetto, per esempio, di questo articolo che state leggendo, perché il messaggio della comunicazione finirà in un istante nel calderone della miriade di altre comunicazioni e altre immagini che bombardano le persone ogni giorno.

Dunque, l'immediatezza, l'efficacia e la chiarezza sono fondamentali.

Quello che propone il Design della Comunicazione Orientato agli Oggetti è radicalmente e funzionalmente differente rispetto al panorama odierno. È un approccio pratico che reputo utile e fondamentale per ogni buon designer: si tratta di suddividere ogni elemento della comunicazione in un oggetto autoconsistente e funzionale e di inserirlo nell'impianto globale in maniera tale da esaltare in primis il messaggio principale e, secondariamente, di fornire tutte le informazioni necessarie in maniera semplice, fruibile, funzionale.

Dunque, più livelli di importanza, uno per ogni singolo elemento della comunicazione, in base al loro peso nel corpus globale.

 

Un esempio

Ragioniamo su un caso pratico: ci viene commissionata la pubblicità di un grande evento, in cui sono presenti personaggi famosi, che serve a raccogliere fondi per una lodevole causa e che si terrà in una certa data e in un certo posto.

Questa commissione prevede un numero di informazioni da fornire enorme se, per esempio, dobbiamo realizzare una affissione pubblicitaria per strada o un banner su una pagina internet o su un social network:

  1. Il motivo per cui è necessario raccogliere fondi (che poi è il messaggio che si vuole veicolare)
  2. L'importanza di farlo nel corso di un evento
  3. La credibilità data dalla presenza dei personaggi famosi
  4. Il luogo dell'evento
  5. La data
  6. L'ora
  7. Il costo del biglietto
  8. L'importanza che le persone siano presenti
  9. L'importanza di raccogliere questi fondi
  10. Tutte le informazioni aggiuntive che possono concorrere a rinforzare la convinzione, nelle persone, della necessità di prendere parte a questo evento
  11. L'immagine dell'evento che serva a creare una empatia immediata, una memoria visiva che le persone possano associare favorevolmente nella loro immaginazione
  12. L'immagine dei personaggi famosi che servono per catturare l'attenzione dei passanti o dei navigatori internet

Queste, per fare un esempio, sono alcune delle informazioni che sono realmente necessarie per la semplice comunicazione di questo evento.

Come è deducibile dall'elenco, non tutte le informazioni hanno lo stesso peso.

In linea teorica, infatti: il motivo per cui si raccolgono fondi potrebbe non essere così fondamentale per i destinatari del messaggio; le persone famose potrebbero non essere simpatiche o non così famose da accreditare il progetto; luogo e ora potrebbero escludere un target di pubblico; la data potrebbe essere infelice; il semplice fatto di chiedere soldi potrebbe dissuadere molta gente dal presenziare all'evento.

Insomma, le variabili sono molte e lo studio e l'analisi della comunicazione dipendono, inevitabilmente, da tutte.

L'approccio OOD, il Design della Comunicazione Orientato agli Oggetti,  serve a semplificare tutto questo.

Come?

Innanzitutto, si tratta di elencare tutti gli oggetti, reali o concettuali, che intervengono nella progettazione della comunicazione di questo evento: serve ad avere un quadro più chiaro del problema comunicativo; serve ad avere ben chiari, in testa, i termini del problema; serve per potere formulare una domanda corretta:

cosa devo veramente comunicare?

In secondo luogo, questo elenco serve a definire una gerarchia comunicativa, funzionale ed estetica di tutti gli elementi che saranno presenti: a seconda delle risposte che verranno date rispetto a ogni singolo elemento ("quanto è importante rispetto al messaggio?", "a cosa serve?", "è necessario immediatamente o è collocabile all'interno di una comunicazione di dettaglio di secondo livello – come un sito web dedicato o altro?" e via così…) avremo, al termine dell'analisi, una vera e propria scala funzionale degli elementi che dovranno comporre la nostra comunicazione. Questo significa che avremo ben chiara l'importanza di ogni elemento e sapremo dargli il giusto peso all'interno dell'impianto finale.

Un esempio pratico di cattivo design mi viene in mente quando passeggio per la città e passa, per esempio, un autobus con la pubblicità di un evento: nel migliore dei casi leggo solo il nome dell'evento, poi tento di trovare al volo, visto che l'autobus se ne va, le informazioni che cerco: la data, il luogo, l'ora o il sito web dove reperire altre informazioni. Di norma non ci riesco, perché le informazioni di secondo livello, in questo caso, o sono troppo piccole per essere lette o sono addirittura inesistenti. Il risultato è che solo quegli eventi che realmente mi interessano provocheranno in me una necessità di approfondire le informazioni differentemente, per esempio con una ricerca su internet. Questo però è imperdonabile, considerando che l'intento di quel tipo di comunicazioni è, come ovvio, di richiamare il maggior pubblico possibile.

Dunque: un elenco completo di tutte le parti del corpo della comunicazione e l'analisi della loro importanza per realizzare avere quella che negli Stati Uniti si chiama «the big picture», ovvero il quadro completo. L'analogia col corpo umano torna utile, perché molti organi del nostro corpo sono nascosti, ma servono tanto quanto, se non di più, di quelli visibili: il cuore, l'apparato digerente…

Nel caso della comunicazione che abbiamo preso come esempio, molte informazioni possono essere nascoste rispetto alla prima comunicazione - che corrisponde alla parte esterna del nostro corpo - mentre altre sono necessarie immediatamente per fare comprendere alle persone di che cosa si tratti. Per esempio: il programma della serata probabilmente è differibile (magari si troverà sul sito web) così come potrebbe esserlo un resoconto dettagliato del motivo per il quale si raccolgono i fondi, e così via. Mentre le informazioni necessarie, in questo caso, potrebbero essere molte di quelle elencate: i personaggi famosi, l'evento, il motivo, data ora e luogo…

Se riusciremo a creare questo elenco e a stabilire una gerarchia razionale delle informazioni da erogare, saremo in grado di pensare a una comunicazione efficace.

A questo, ovviamente, dovremo aggiungere l'estetica gradevole e la capacità della comunicazione di restare impressa.

Questi due fondamentali elementi li valuteremo nella seconda parte di questo articolo, insieme al primo elemento (la funzionalità): metteremo in pratica l'esempio che abbiamo proposto realizzando la comunicazione di questo ipotetico evento, basandoci su una serie di considerazioni che effettueremo a titolo di esempio.

Alla prossima ;)


Steven Paul Jobs

“Here’s to the crazy ones. The misfits. The rebels. The troublemakers. The round pegs in the square holes. The ones who see things differently. They’re not fond of rules. And they have no respect for the status quo. You can quote them, disagree with them, glorify or vilify them. But the only thing you can’t do is ignore them. Because they change things. They push the human race forward. And while some may see them as the crazy ones, we see genius. Because the people who are crazy enough to think they can change the world, are the ones who do.”

Il primo post è dedicato a Steve Jobs, perché molto di quello che oggi penso, e come lo penso, nel mio lavoro – e non solo, per certi versi – lo devo al modo in cui mi ha insegnato a vedere le cose. Al modo in cui mi ha insegnato a ragionare sulle cose.

Esulo dal main stream di glorificazione di Steve, perché me è stato molto altro: ho visto e rivisto le sue presentazioni; ho studiato i suoi prodotti sotto ogni punto di vista; ho vissuto e ragionato su ogni pixel dei suoi software.

Cosa – per me – molto importante, ho riflettuto molto sul suo modo di arrivare al punto, al risultato. E sul come. E sul perché.

E mentre vedo molta gente che ne tesse le lodi perché ha portato Apple dove l’ha portata, io mi godo il senso, assolutamente personale, di quello che a me questo suo passaggio terreno ha dato.

Mi ha insegnato a cercare di andare costantemente oltre il mio limite, a livello creativo, per vedere, con tutta la curiosità e la gioia della vita, cosa c’è dopo; mi ha spiegato, nel corso degli anni, che i dettagli apparentemente più insignificanti, nel mio lavoro, possono incredibilmente trasformare quello che faccio da qualcosa di normale a qualcosa di emozionante, e a non trascurarli mai; mi ha insegnato che in quello che faccio può esserci sempre una deliziosa “just one more thing”; mi ha insegnato, fra le cose più importanti, a non arrendermi al senso comune delle persone e delle cose ma a cercare, sempre, di trovare, di ascoltare e di capire il mio punto di vista.

E questo, dopo tanti anni, è forse la cosa più bella che so fare.

Grazie, Steve.